Deliberatamente depistanti. La coscienza del campagnolo e il suo lunario.
Decide la sua convinzione. Creare rituali indeterminati. Nella discrasia della vita ordinaria tirava le differenze tra universi paralleli. L’umidità, completamente ingestibile, gli garantiva il mantenimento della stasi. Era così soave il suo fare che a stento riconosceva le proprie azioni, ma la Luna, con ostinazione celeste, esigeva quel contrasto naturale tra materia e antimateria.
Nella buca del suo canonico tinello celava bottiglie di vino partorite dal seno della terra. Erano posizionate con dogmatica precisione. Richiedeva protezione. Idee inconsuete finalizzate a tracciare coordinate astrali, che nello scorrere della luce, ascoltò senza timore. Se avesse rifiutato l’invito a procedere non avrebbero emesso alcuna sanzione. Il suo spirito adolescenziale lo portò a scontrarsi con le dinamiche familiari, ma nella pace del caos si sentiva a proprio agio. Di seguito, quando il conflitto ebbe termine, decise di aderire al progetto. Il Lunario era la forma; su di esso annotava i dettami della vita contadina così da sviare la curiosità e la diversità. Gli appuntamenti con la campagna erano simboli, che letti in chiave di logica deduzione, corrispondevano a monumentali sistemi metafisici per consentire manovre sicure. Ogni notte sospendeva l’ipnosi, nonostante le fatiche del giorno, per verificare la correttezza dei dettami e al contempo la dialettica delle bottiglie, custodite nella buca, tra l’umidità della pozzolana, nel suo canonico tinello.
[Testimone anonimo]
Li hanno trovati lì, in una buca all’interno di un tinello, insieme al vino, al fresco della pozzolana (piroclastite sciolta). Un campagnolo, colmo di coscienza, li costudiva gelosamente. La paura che venissero scovati dalla sua famiglia lo spingeva ogni notte ad alzarsi dal letto per controllare che fossero esattamente allo stesso posto. Non a caso ebbe l’accortezza di posizionare sopra lo strato di materiale che li ricopriva, pietre e cortecce le cui linee di congiunzione andavano a formare schemi di sistemi solari, ancora oggi, sconosciuti.
Con modalità deliberatamente depistanti, annotava, sul Lunario appeso alla porta del suo canonico tinello, alcune informazioni che non corrispondevano affatto ai dettami della campagna, bensì ad alcuni eventi non ancora accaduti. Nella peggiore delle previsioni, il margine di errore era di uno o due giorni: una discrasia riconducibile all’età, ormai avanzata e alle differenti unità di misura tra i pianeti coinvolti.
[Testimone omonimo]
In emersione apparivano figure antropomorfe caratterizzate da distrofie retiniche che tradivano le aspettative. A corrente alternata si muovevano, ma una volta attivati, per inerzia, tendevano verso orbite imprevedibili; come a dire che l’inerzia è l’unica energia. Quel campagnolo, colmo di coscienza, provò a riprodurle in chiave artistica, anche se per timore della diversità routinaria le conservò nella valigia di legno tra l’ossequio tacitiano e le minacce di distacco dell’elettricità (da parte degli aguzzini aritmetici). I ritmi sonno-veglia divenuti sogno-sveglia a tutta forza lo sollecitavano. Per questa ragione inserì codici di decifrazione del c.d. “Ambiente esterno”. Il dosimetro funzionava in modo anomalo. Assorbì parte di quelle radiazioni e così dimenticò il significato di quei codici sensibili. L’ossido prese il sopravvento e l’olio di lino, quello crudo e buono, rese scivoloso il pavimento pelvico del canonico tinello. Prese un lucchetto sinistrogiro, lo fissò con scrupolo ramato; a quel punto non poté far altro che chiudere la valigia. All’interno c’erano i codici di avviamento, le mappe interstellari, i peli di gatto, i porcellini di S. Antonio; ovviamente morti stecchiti. Per qualche istante tornò al pensiero di quel falegname intossicato dalla quotidianità. Provò pietà, così indossò maschere e guanti per modellare quelle tossine come si fa con l’argilla. Rimase spaventato da se stesso. Il disgusto del buio (fraudolento e divinatorio) lo convinse a serrare bene quel lucchetto. Per sicurezza mise qualche punto di saldatura. Gli elettrodi sfiammavano come esplosioni solari. Calore, colore, ferro fuso: pensò alla dolcezza del miele. Pagò cara quella distrazione. Si ferì di gusto e con gusto prese del miele, lo mescolò al limone (la pianta secolare posta di fianco al tinello partoriva un solo frutto all’anno) e realizzò un impacco a coprire (antisettico). Consumata la guarigione terminò il lavoro.
Di nuovo, a tessere idee. Capì che quel viaggio era la sua esistenza. Su pannelli di antico mobilio, ereditato da una cara zia, tracciò solchi chimici tra le parole di futuri gloriosi dell’uomo nello spazio. La Luna, meno sinistra e più calda del sole, ruotava intorno al mondo. Teoria che ebbe merito di riscontrare nelle pagine di un rotocalco dell’epoca. Tra le righe leggeva e segnava le traiettorie che da lontano gli erano state indicate. Certo del proprio operato descrisse la gelosia. Autorizzò l’atterraggio dell’Aquila, e con favore supremo, ebbe modo di salivare la sua quotidianità; incantevole gesto di fierezza e rispetto verso il suo Io-uomo. Era domenica, giorno di percentuale festiva.
[Fine degli atti preparatori]
Durante il collaudo il motore si avviò correttamente, sebbene l’aspetto della Macchina faceva temere il peggio. Di sicuro l’avviamento manuale richiedeva energie all’inverosimile, ma era piuttosto abituato alle dittature dei nervi fossili. Quando presentò il memorandum della Mega Macchina, il francese non fu così sorpreso. Esule del confine, esperto di territori e semantica provò comunque gioia nel veder realizzato il Progetto Del Limite. La Mega Macchina splendeva. Come un obelisco antico raccoglieva la sintomatologia universale del mito del progresso.
Il campagnolo, colmo di coscienza, era sempre più saggio. La sua opera stava per fondersi con il passato e confondersi con il futuro. Armato di inchiostri seduttivi lanciò gesti lineari su mappe antiche, leggibili nel senso della grafite astratta. Espiate le colpe riprese il cammino interrotto. Si accorse che ben presto quel viaggio sarebbe arrivato a conclusione. Temeva la tossicità del quotidiano. Ne era terrorizzato.
Dietro la porta del canonico tinello appariva il redentore incappucciato. In segno di pace e rispetto apriva le braccia per donare la pietas celeste. Volutamente si guardò bene da ogni forma di contatto. Rimase il contorno. La Decrescita Felice rappresentava la soluzione all’enigma; anche i maestri della tecnica lo sapevano, e per questo temevano giorni nefasti qualora fosse riuscito nell’impresa.
L’interpretazione del piano regolatore generale (PRG) rappresentava il culmine della ricerca. Analizzò i limiti della missione. Con audacia descrisse le argomentazioni a sostegno e a contrario. Era un fervido sostenitore del sacrosanto brocardo secondo cui l’interprete debba attenersi al testo normativo ed evitare di dedurre conseguenze dal silenzio.
Silenziosamente l’umidità risaliva dalle pareti. Temeva per la salute delle sue opere. Fu così che decise di anticipare il tempo. Ebbe una visione di se stesso mentre riposava all’ombra della quercia senza batter ciglio mentre i gigli grandemente belli e profumati infestavano l’eden delle stagioni future. Ritrasse quei volti in molteplici forme con usi e costumi diversi perché ogni volto doveva essere la commemorazione di un’emozione vissuta. Scampato al capolavoro della natura scelse di mescolare nuovamente le tossine del gioco. Estrasse sostanze violente atte a rappresentare il resto dei consociati uniti e coesi per nuocersi a vicenda mentre adagio si muovevano verso le luci e i bagliori della Maga Macchina ormai terminata e pronta al decollo.
Gli ultimi istanti della vita sulla terra erano i ruggiti meticci per saluti distesi. Un sorriso quasi ghigno si estendeva sicuro in orizzontale. L’abito migliore per l’occasione era una divisa da aviatore sottratta ad un pilota caduto in battaglia qualche anno prima. Gli calzava alla perfezione.
[Informazioni riservate]
Certo che se avesse avuto modo di registrare ogni singolo pensiero ed annotarlo sul taccuino di viaggio avrebbe goduto di una scatola nera aggiornata come il flusso della coscienza che chiaramente non riusciva a controllare.
Gli spiriti saliti a bordo instabili e pesanti, avrebbero influito negativamente durante la partenza. Il campagnolo, agreste, ma non per questo stolto, prevedendo la clandestina presenza dotò la sua Mega Macchina di feritoie (spifferi dinamici a controllo elettromeccanico) che in caso di aggressione o persistente fastidio da parte degli intrusi avrebbero funzionato come canale di espulsione.
Nella cabina di regia di quel fantastico mezzo fatto di rame, acciaio e porcellana, attivò tutte le funzioni preliminari prima del decollo. L’accensione del reattore principale avvenne per fiamma rovesciata come preriscaldamento della camera refrattaria; a seguire il sistema di pompaggio spinse il PCB ad una pressione altissima: la tenuta dei condotti principali era assicurata da membrane bituminose a doppia stratificazione. Il fumo espulso aumentava ad ogni istante. Il rumore era tuono e le genti del luogo furono pervase da un piacevole acufene, sicuramente destabilizzante. Dalle loro case, dalle loro finestre, resisteva la paura di esporsi per guardare gli accadimenti. Come del campagnolo che sogna (incubo) spaventapasseri che animati dalla rabbia (diamine!) con la loro condotta vanno a spigolare il frutto non ancora raccolto.
Sul fondo altrui non ebbero tempo di scrutare oltre la folta vegetazione; la Mega Macchina prese il volo in maniera retta, perpendicolare al suolo, e la sua potenza rese carbone ogni res sottostante. Un’inclinazione costante di cinque gradi verso sud e nel breve periodo nulla più si vedeva oltre il cielo. In essere furono solo le mille domande dei contemporanei. Se non altro si sarebbe aggiunta la ricerca di un altro Arché.
La sua Arca, carica di speranze e oggetti in disuso, viaggiava stabile verso il punto di contatto ben identificato nelle carte lunari. La traiettoria veniva garantita dalla presenza di timoni ricavati pienamente dal corpo della struttura. Il campagnolo, soddisfatto dall’andamento del viaggio cadde in un sonno improvviso che aveva il sapore del cedimento del corpo dopo anni di fatiche accumulate per la realizzazione del progetto.
Trascorse una quantità indeterminata di secondi divenuti minuti e poi ore. Di colpo balzò su sé stesso quando gli avvisatori acustici, assolutamente efficienti, iniziarono il concerto. Di nuovo alla guida della sua creazione; gettò su carta le traiettorie interstellari e, come suggerito dalla visione direzionò la Mega Macchina verso il corpo celeste lunare. I crateri presenti da tempi lontani gli apparivano come sovrastrutture di una città del futuro. Poteva scorgere nel panorama sottostante segni evidenti di una presenza divina dell’illuminatore terrestre. Provò sentimenti di vendetta e misericordia, rabbia e serenità, avvilimento e potenza; poi silenzio. Infine solitudine.
[Il decollo della Mega Macchina]
Un numero imprecisato di bulloni avvolgeva la calotta del basamento. Avrebbe voluto trarne un codice da decifrare, ma a causa del sovraffollamento delle dimensioni la mente non era lucida per lo scopo. Decise così di adoperare la fionda gravitazionale per far orbitare la sua creatura ad alta velocità intorno alla Luna.
Tutto fu subito chiaro: le anime rappresentate iniziarono a danzare, e come ciottoli nel mare balzarono a creare cerchi perfetti per poi inabissarsi dolcemente nel maelstrom più torbido. Riconobbe amici e nemici e si lasciò accarezzare da un senso di flebile angoscia. Svenne dalla gioia. Aveva del talento.
Ma la Luna non spacciava timori. Decise di essergli fedele e quegli istanti di cecità furono per la sua mente l’apice della saggezza. Consapevole che il crescente impulso cinetico gli avrebbe consentito limitazioni di movimento afferrò la prima cosa tra le mani: un giornaletto (oggetto di dono trovato per caso sul letto il giorno dell’abbandono) parlava di missioni e di eroi; di esseri che muovevano verso la speranza di un nuovo corpo da vivere, ma con la stessa anima. Vi trovò annotate informazioni importanti, che avrebbero sicuramente navigato il campagnolo verso rotte di salvaguardia e clausole di espulsione qualora ci fossero stati degli inconvenienti. Sicuro del proprio operato e della cura rivolta alla realizzazione della creatura meccanica trovò interessante la lettura dei poeti che offrivano la carne alla Luna. Nella fase della distensione i muscoli fermi, la pelle tesa di lato come del vento che sferza grida nel deserto; e l’orecchio ad udire questo amare:
Hanno dissacrato la luna,
l’hanno resa meccanica:
i poeti piangono, ma non piange
la luna alla vista dell’uomo
atteso da millenni, da secoli.
Essa ha visto e udito il pianto,
l’angoscia dell’uomo
nello sguardo, nell’invocazione;
ora è l’ora dell’abbraccio
della conoscenza
come avviene fra il Dio
e l’essere umano sconvolto
dal mistero che non si cancella
in un volo lungo o breve che sia.
La luna oggi è di tutti
del poeta e della plebe
del singolo oscuro, e del miliardario.
Ora bisogna credere nella sua luce,
prima s’immaginava il suo movimento
e ciascuno con la fantasia
la dirottava a piacere
verso spazi non suoi.
Questo è miracolo di poesia
prima che di scienza.
Noi lottiamo perché la luna
sia ancora dei poeti
solo così sarà grande
sempre più grande,
raggiungibile nell’ora sacra dell’uomo
che rischia per competere
con l’eterno che è in noi.
Quando gli uomini saranno arrivati
vestiti di panni
che la luna forse disprezza
il mistero finisce
e la voce si spegne
nel cuore dell’uomo.
Perché l’uomo
ha osato tanto?...
<<…Manca il discorso
fra l’uomo e la luna
come è ancora impreciso
il dialogo fra la terra e il cielo>>.
[La fase lunare]
Una volta esaurita la spinta uguale e contraria avviò la procedura di correzione. Il combustibile, esausto e esaurito non serviva più. L’inerzia accompagnava il moto e la sua opera cullava sé stessa verso l’infinito. Il campagnolo non desiderava altro: in realtà non aveva mai desiderato qualcosa.
Aveva deciso di non fidarsi più dell’uomo: delle sue azioni temeva il concetto della relatività. Il problema era senza dubbio l’abitudine all’assoluto. Ma qual è il valore di un numero particolare nel famigerato aspetto del complesso? Come può un solo ed unico essere vivente sottrarsi all’ordine prestabilito delle macchinazioni divine? Quando al termine del conflitto (nuovo piano di divulgazione di ricchezza e povertà) decise di aderire al progetto, la potenza fu sprigionata dall’unione positronica del cuore e della mente. In un lasso di tempo molto breve perse ogni contatto con la realtà. Il pensiero era diretto alla proiezione della terra che lo aveva generato come essere speciale privo di bisogni; nella sua nudità si sentiva protetto dal contatto con l’aria ed adorava gli insegnamenti degli antichi precettori che ebbero cura di trasferirgli non l’amore per la conoscenza, bensì l’attenzione al metodo. Da allora seguì l’approccio concettuale e come una melodia buia installava informazioni in ogni forma generata dal fango. Come di quel Prometeo e della sfida agli Dei.
Quando la Mega Macchina entrò nel canale temporale della nona coscienza il campagnolo ebbe la sensazione che la struttura avrebbe ceduto all’attrazione gravitazionale. La forza sublime e paurosa mostrava ai propri occhi dissociazioni di pensiero: la proiezione del principio generatore e le varie sezioni del suo organismo.
Vide dei bagliori sotto di sé. Oggetti in movimento: macchine volanti di ogni genere e dimensione. La discesa incontrollata fu attenuata a sua insaputa. I comandi autogestiti non rispondevano alle richieste e la mente era tornata lucida.
Non è difficile immaginare l’espressione di gioia: la soddisfazione fra le pieghe della pelle dura. Nessun parametro, solo il flagello della sua condizione: flussi di linee, geometrie variabili e le gesta meccaniche.
Risultò vittorioso nelle intuizioni perché le istruzioni ricavate dal corpo lunare furono postille di indubbio valore scientifico: descrivevano raccolti e territori.
Con modalità deliberatamente depistanti narrava i cicli della luce, disegnati sul Lunario, appeso alla porta, del suo canonico tinello.
Era uno stolto dell’infinito.
[Il trapasso dell’infinito]